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IL LAVORO SECONDO L’ACCEZIONE MELONIANA
Disponiamo solo di un misero pugno di decenni per alleggerire il concetto di lavoro, per passare dall’Homo faber all’Homo ludens, o saremo schiacciati dalla stessa pietra rotolante che ha sancito la nascita del progresso.

Ho durato fatica a farmi un’idea esaustiva sulla concezione destrorsa di lavoro. Dapprincipio credevo consistesse nel ripercuotere la cadenza di un concetto veterotestamentario: col sudore della fronte ti guadagnerai il pane ecc.; il lavoro inteso come maledizione, ma integrato dalle implicazioni degli imprenditori delegati a creare la suddetta maledizione. L’idea che mi ero fatto era quella che era, e così approfondendo la questione, mi sono alla fine persuaso che il tutto si riduce ad uno schietto protestantesimo berlusconiano: lavorare per arricchirsi e mostrare di essere eletti da Dio. Agli effetti oggi di “crismati” ne sfilano di parecchi, sempre di più, stando ai numeri statistici.

Per la marmaglia residua rimane a consolazione l’idolo del “lavoro per il lavoro” (ben definito dal Gruppo Krisis), il cui simulacro è tenuto ancora in piedi col nastro adesivo di una retorica da maestro Perboni. Produzione e capitale finanziario ratificano il loro definitivo divorzio, la tecnologia e la digitalizzazione hanno ormai quasi spodestato il vizietto della manualità, le pubbliche amministrazioni divengono sempre più riserve artigianali di antiche arti e mestieri, munite di archivi che rasentano pericolosamente l’idea museale, gli imprenditori caldeggiano l’arrivo dei robot già incellofanati nei magazzini in attesa del prossimo emendamento, la disoccupazione crescente insegue il suo inesorabile assetto strutturale, eppure l’imperativo etico continua a grilleggiare attorno ai focolari del nostro paternalismo neoliberale.

A conti fatti, persino le famose “buche scavate e ricoperte” del citatissimo Keynes dovrebbero farci sorridere di meno, se tante professioni, fin da ora surrogabili per mezzo di una piccola accortezza digitale o di un parsimonioso decreto, costituiscono un semplice movimento per il movimento: una buca scavata e ricoperta, tanto per non toglierci sportivamente il pane di bocca.

Secondo David Graeber nel suo impietoso Bullshit jobs, il glorioso mondo del lavoro si stravacca su una caterva di professioni totalmente inutili.

Gli imprenditori che continuano a venerare l’urgenza e l’insostituibilità del lavoro umano od umanoide, e rimbrottano dalle loro tribune d’onore gli affetti da divanismo cronico, ripongono ovviamente la loro fede nell’avvenire lavorativo sulla sempiterna necessità della vendita, l’unica cosa che non verrà mai a mancare (I cieli e la terra passeranno, ma l’economia del libero scambio non passerà). Così il futuro ci costringerà ad ammirare il paradosso di tanti piccoli self employed, titolari di partita iva ma obbligati a vendere per conto di colossi commerciali in cambio di paghe rigorosamente a provvigione: responsabilità da liberi professionisti ed entrate sotto la soglia del dipendente… mica male come prospettiva.

Nell’orrorifico scenario di questo economico effetto Elysium, in cui il lavoro tradizionalmente inteso costituirà la reinvenzione di nicchia o il lascito di pochi eletti, il Reddito di Cittadinanza, per quanto l’affermazione possa suonare impopolare, è forse la sola cosa veramente progressista dell’ultimo ventennio.

Anche scendendo al livello delle correnti beghe da cortile, la confutazione del voto di scambio fa opportunamente ridere. Dall’ “Avete capito bene: toglieremo l’ICI”, fino alle 100 euro di Renzi, troppi politici sarebbero smentiti. Nel voto si realizza sempre uno scambio di natura edonistica, fosse anche lo scambio a favore di un alto ideale che per quanto ci riguarda può acquisire benissimo la natura di un oggetto. In pratica votiamo chi ci garantisce in cambio, e nella più vasta latitudine di accezioni, un miglioramento. Poi è chiaro che ciascuno nutre le sue private ossessioni: il povero ha l’ossessione del pane, il ricco quella della flat tax.

Il grosso errore è stato, fin dalle prime battute, quello di vincolare il Reddito di cittadinanza ai termini di uno sbocco lavorativo che la disoccupazione strutturale non potrà mai garantire a tutti i suoi beneficiari. Sarebbe stato meglio estenderlo sotto forma di reddito veramente di “cittadinanza”, diminuendo magari l’importo e svincolandolo definitivamente dal sistema fallimentare dei centri per l’impiego e dei corsi di specializzazione, filtri appunto questi ultimi, che se non valgono ad occupare tutti quelli che se ne avvalgono per la suddetta disoccupazione strutturale, adempiono certamente allo scopo di esentare il sistema dalla colpa di aver messo al margine chi non se ne è avvalso.

Ma la retorica impiegata per affossarne eticamente i percettori e metterci l’uno contro l’altro, è stata una delle campagne politiche più sporche a cui abbia mai assistito. E quello attuale è forse l’unico governo votato deliberatamente per togliere qualcosa anziché aggiungerla.

Stando alla Meloni, il problema principale non è il fatto che ci sia gente costretta a lavorare a tempo pieno per 800 euro al mese, ma il fatto che qualcuno percepisca il medesimo importo “restando sul divano”, importo, voglio ricordare che sotto l’odierna spinta inflazionistica simboleggia poco più che una Caritas a domicilio.

Così mentre il ricco rimane intoccabile perché è l’unico deputato a “creare lavoro e ricchezza”, (parole di Sgarbi), una guasta battaglia per la giustificazione al ribasso ci spinge ad accapigliarci con i collaterali, affinché sull’osso spolpato esploda puntualmente la canea.

Credo ci siano diversi gradi di orgoglio fra chi dice: “io le mie 800 euro al mese a differenza dei divanisti non le rubo, ma me le guadagno col sudore della fronte”, e chi dice: il mio lavoro vale di più di 800 euro al mese. La logica del primo ingrassa il padrone, (e la parola padrone sebbene ormai stigmatizzata assieme a tutto il gergo comunistoide, continua ad aprire, anzi a chiudere nuove prospettive lessicali); il secondo opera astrattamente una istanza democratica con ricadute di valore sull’intero corpo sociale.

Con il Reddito di Cittadinanza si perde, tra le altre cose, l’opportunità di parlare seriamente dell’inadeguatezza generale dei nostri salari, cosa che stava avvenendo in modo più o meno proficuo. Con l’estinzione del Reddito di cittadinanza anche le istanze di sopravvivenza ritornano ostaggio del Realismo Capitalista che analizza prendendo nel suo forcipe solamente il trancio di realtà che gli conviene.

Il Realismo Capitalista è intrinsecamente contraddittorio: indeterministico laddove crede nella meritocrazia dei titoli di studio e della specializzazione; deterministico laddove si arrende agli inesorabili meccanismi del mercato finanziario. La sua cifra bella e finita è la colpevolizzazione dell’uomo ridotto ad individuo, costretto a vivere sotto un soffitto che si abbassa sempre più. Su tutti noi continua a pendere l’accusa di “fallito”, anche quando la mitica mobilità sociale è sempre più ridotta a un biglietto vincente o a una seduta di roulette russa.

Bisogna tener presente che disponiamo solo di un misero pugno di decenni per alleggerire il concetto di lavoro, per passare definitivamente dall’Homo faber all’Homo ludens, o saremo schiacciati dalla stessa pietra rotolante che ha sancito la nascita del progresso.