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Lamezia: non siamo tutti ‘ndranghetisti Intervista a tutto campo con il giudice Romano De Grazia

prima parte

Nel momento in cui mi è venuto in mente di chiedere al presidente aggiunto onorario Suprema Corte di Cassazione, giudice Romano De Grazia, un suo parere sul momento politico che stiamo vivendo nella nostra città dopo il terzo scioglimento del consiglio comunale, non ho nemmeno lontanamente pensato che avrei dato il “la” ad un vulcano in eruzione. Il giudice, al quale riconosciamo il merito di dire pane al pane e vino al vino, non si è risparmiato e con la sua logica stringente, sempre supportato dall’aver “masticato”  ius  a pranzo e a cena, ha fotografato la situazione politica a livello nazionale e per caduta, quella della nostra città e, marginalmente, della nostra regione.
La sua disarmante semplicità nella esposizione dei fatti sorprende quanto la sua ironia, quando a fronte di logiche soluzioni contrappone le “salvifiche proposte cervellotiche” dei politici.
Relativamente alla nostra città ed alla nostra regione,  vien fuori un quadro disarmante: possibile che il voto di scambio, il do ut des abbia tanto peso? Possibile che una buona parte di lametini, nell’esprimere il  consenso elettorale  sia condizionata dalle ‘ndrine del luogo? Possibile che il condizionamento mafioso abbia radici così lontane? Possibile che i lametini votino sempre ciarlatani ed imprestati alla politica?
Sembrerebbe proprio di si, se ventisei anni non sono serviti a metter senno!
Intanto per fine febbraio, presumibilmente, a Foggia avrà luogo un grande meeting al quale converranno, oltre ai simpatizzanti ed agli esponenti di tutta Italia  del Centro Studi Lazzati, magistrati e docenti di diritto, non improvvisati “professori di lettere e cartoline”, come il giudice definisce  certi personaggi che calcano il proscenio politico e che è meglio perderli che trovarli.
Intanto, data la lunghezza dell’intervista, sono costretto a dividerla in tre parti. Ma non perdetene una parola. Se effettivamente volete dare un nuovo corso alla politica cittadina e… perché no, avere l’idee chiare su quanto sta accadendo nel nostro Bel Paese.

Giudice De Grazia, siamo alla frutta? Inquinamento delle istituzioni, corruzione dilagante, irresponsabilità etica e giuridica della classe politica del Paese, sembrano non lasciare spazio a  ravvedimenti …
E’ un fatto di  comune e di notoria conoscenza che il nostro paese,  aldilà delle problematiche nei singoli territori, versi in uno stato di grande confusione dove le istituzioni non godono più della credibilità dei cittadini che, o si astengono dal votare o cercano una  soluzione radicale cosiddetta populista. Ciò avviene perché  la classe politica del nostro paese è, purtroppo, venuta  meno all’impegno ed all’obbligo,  attraverso la bonifica del consenso,  di rendere trasparenti le istituzioni stesse.
E’ un problema, questo,  che va aldilà dei singoli schieramenti; è una situazione di caos generale che va affrontata decisamente se si vuole riavvicinare il cittadino alle istituzioni. Le responsabilità di tutto ciò sono di destra, di centro e di sinistra. Pertanto si pone il problema della classe politica che va risolto con l’educazione e l’istruzione. Sottolineo, è il momento nel quale bisogna far fronte comunque all’emergenza,  dando però nel contempo e nell’immediato, credibilità alle istituzioni.

Veniamo a Lamezia: il terzo scioglimento del consiglio comunale certifica – e  senza ombra di dubbio – che il voto di scambio non ha mai avuto fine. Ventisei anni   sono trascorsi inutilmente e l’elettore lametino non ha cambiato passo né manifestato volontà di uscire, nell’esprimere il  consenso elettorale, dal condizionamento ‘ndranghetistico… perché ?
È per questo che ad  ogni elezione io parlo di quello che avviene nella nostra regione,  ma ormai quel che  avviene  in Calabria avviene dappertutto, in Italia come  all’estero. Prima della strage di Duisburg, il  Berliner Zeitung, quotidiano tedesco,  richiamò l’attenzione della nostra classe politica affinché stesse  attenta alla ‘ndrangheta ed alla  dilagante corruzione. Ciò perché il malaffare era entrato in Germania e negli altri stati europei invadendo quei mercati, facendo affari d’oro e quotandosi addirittura in Borsa.
Con orgoglio posso dire che quel grido di allarme fu  raccolto solo dal Centro Studi Lazzati, ma  fu sottovalutato e trascurato dai nostri politici che dopo la strage di Duisburg, sì cosparsero di cenere il capo e si stracciarono  le vesti evitando di confessare la loro responsabilità nel non aver dato peso alle denunce del quotidiano berlinese.
Ora ovunque, nel nord come nel sud  del nostro Paese, così come nell’Europa  intera, si pone il problema del dilagare mafioso, prima circoscritto alla sventurata terra di noi altri: la mafia delle coppole storte in Calabria, in Sicilia ed in Sardegna. Oggi la stessa organizzazione si presenta in camicia e cravatta. Alla mafia della lupara, ormai quasi in via di  estinzione,  si è sostituita la mafia dei colletti bianchi, ben più pericolosa, perché nasconde il triste connubio con la politica e  con un semplice clic  ripaga i favori ricevuti e soddisfa tutti gli appetiti dei numi tutelari.
Ma in Calabria ed in particolare nella nostra Lamezia, cosa è avvenuto?
Non è che io la prenda alla lontano, ma è che la dimensione del fenomeno mafioso non è più circoscritta ai confini regionali, bensì è andata a far parte di un network del malaffare. Comunque in Calabria, di recente, sono stati sciolti cinque consigli comunali; il che ci lascia sconcertati e gravemente amareggiati perché sono eventi che si potevano evitare solo ricorrendo a rimedi legislativi appropriati.
La nostra città  è stata interessata da tre scioglimenti: il 1991, sindaco il dottor Anastasio, capo di una coalizione di centro-sinistra, come allora si definiva il pentapartito,  per il vezzo di farsi appoggiare da coloro che gestiscono i voti, cioè le cosche lametine;  poi, secondo scioglimento (2002)  la  coalizione di centro destra del sindaco Scaramuzzino per lo stesso motivo e terzo –  speriamo ultimo – (2017)  quella fantastica di Mascaro, di centro-destra, con pressocchè  identiche, forse più circostanziate motivazioni.
Il che evidenzia al colto ed all’inclito che la mafia diventa operativa al momento della raccolta del consenso. Nelle sue scelte elettorali non ha ideologie o un  percorso culturale, ma va in favore e al fianco di quella coalizione o di quel personaggio  che in quel momento  sembrano vincenti. Entra così  nelle istituzioni elettive e così “piega” dirigenti e  funzionari alle nuove necessità.
Ecco la corruzione,  il voto di scambio e non bisogna dimenticare quello che cito sempre:  alle regionali del 2010, come in tutte le elezioni,  politici di destra,  di sinistra e di centro bussarono alla porta del più influente boss calabrese per  avere  l’appoggio elettorale in Calabria.
Il che determina  l’inevitabile inquinamento delle istituzioni elettive col mantenimento di quelle infedeli all’interno delle istituzioni stesse (burocrati, funzionari e dipendenti amministrativi). Pertanto è al momento elettorale  che la corruzione, e la  mafia entrano nei gangli amministrativi.
E’ questo il momento della grande guerra. Ed è in questo momento che bisogna intervenire. Diversamente la battaglia è perduta. Non ha rilievo evidente, quindi, la  sola dichiarazione di intenti quale quella di rifiuto dei voti della mafia. Ieri  (2005) lanciò il rifiuto Romano Prodi a Locri,  in Calabria, ed oggi quello stesso grido si leva come dichiarazione, con monotonia corale e disarmante, dai talk show allestiti per portare l’acqua a mulini ben identificati. Il tutto nel tentativo di rifarsi il trucco e di apparire agli occhi del cittadino elettore come candide verginelle.

 Segue …