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Il santo passa sempre ma noi tiriamo dritto

Sottratto alle ombre ospitali del convento di Paola è giunto in questi giorni fino a noi lametini l’abbigliamento pressochè totale del patrono di nostra gente, consistente in un mantello, dopo che la reliquia ex ossibus del suo dito indice aveva già fatto vela in direzione del continente australiano per rientrare in questi giorni.
Scabro come intessuto di triboli, e di un bel color fegato che non mancò all’antico titolare nè in vita nè in morte, campione di quella razza nata a perseguitare i potenti con la verità, il mantello ebbe anche la ventura di essere precursore del ferry boat, quando, per virtù del Sommo Nauta divenuto impermeabile, compì la traversata dello Stretto.
Un osso… un mantello… che è anche gran parte di ciò che resta di Francesco dopo lo scempio che gli Ugonotti fecero della sua salma.
In linea di massima l’attenzione accentuata alle vestigia di santi e servi di Dio può denotare nei suoi estremi o tempi assai prolifici, o al contrario tempi pestilenziali. E credo che per quel che ci riguarda sia il caso di scivolare sulla prima ipotesi.
Sta di fatto che il Santo è passato e che noi abbiamo lasciato fare.
L’augurio che ciascuno di noi doveva formulare, anche senza confessarlo, era che quel mantello ci traghettasse in spirito in un’era in cui la Calabria sarebbe stata veramente “etica” e i calabresi sarebbero stati veramente “nel mondo”, e non ritratti in cricche dove si pratica una volgare cointeressenza al posto della comunione. Ma imbottigliati nel cul de sac della nostra incoscienza ci siamo sperperati in simbolismi di superficie e nell’abbaglio appagante che è la malattia del secolo.
Queste righe volevano essere al principio una lettera tra il drammatico e il faceto indirizzata direttamente al Santo: ma a ben pensarci che cosa avrei potuto bucinare che Egli stesso non sapesse, e che non potesse a sua volta ripetermi prendendomi in contropiede? Che cosa direbbe, piuttosto, di suo alla mia persona, come a quella di chi ultimamente ha toppato alla grande?


Credo indulgerebbe al perdono indistinto senza “ma” e senza “se”. Magari prima, come al cospetto del re di Napoli, spezzerebbe, anzichè l’ostia consacrata, una moneta in faccia a loro, per mostrare quando sangue grondi un milione di euro e quanto porti scalogna il maltolto e il frutto della ricettazione (ci salvasse almeno la superstizione che in alcuni casi è scorciatoia alla verità!).
A ciò può giungere la misericordia di un santo: perciò massima comprensione verso la debolezza umana impastata della peggior torba di peccati e cupidigia; ma, ancora, massimo rispetto verso chi inoltra regolare domanda di assunzione in certe short list, forte soltanto dei suoi titoli e ignaro di sortilegi, e verso chi malgrado tutto esercita la pratica ormai puramente sportiva del “concorsismo” senz’altre riserve o scappatoie trasversali.
È l’ora buona che tertulie, camarille e consorterie si ficchino bene in capo che l’onestà non è il primo segno particolare dell’idiota del villaggio; è l’ora che i maneggiatori che tutto “puotono” chinino la testa perchè il santo passa dicendo Ammèn, e dubito che qualcuno di loro voglia rimanere congelato nella sua posa più caratteristica, ossia col le mani in cassetta.
In ciò i tempi paiono proficui: citando a mio modo il mitico Monnezza, diverse montagnole di neve sono state spalate, portando alla luce le eiezioni incartapecorite e ancora graveolenti che covavano sotto l’immacolato candore.
Qualcuno sull’aire dei precedenti successi intende adesso far luce definitivamente sulle assunzioni SACAL, altra famigerata corte dei miracoli: e qui si aprirà un’altra magnifica storia di coccodrilli e di cloache.
La sciancata e cieca Giustizia il cui lento passo è quello della lancetta delle ore (l’orologio ordinario manca purtroppo di quella degli anni), lentissimo, esasperante, ma da chi ne è perseguito, più sinistro e ossessivo del ticchettio del Cuore rivelatore di Allan Poe, ritrova prima o dopo tutti sul ciglio del crepaccio.