Vai al contenuto

Fotti compagno e paraponzi canzonatorio


 
…è notorio che la Calabria e poi l’Italia saranno sempre più una succursale del purgatorio dove una marea di anime è chiamata a scontare le cupidigie e gli errori dei pochi.
 
 

Una lettera  in redazione inviataci da Antonello Cristiano,  apparentemente un po’ canzonatoria, ma di struggente amarezza. Mette sotto i riflettori non solo i giovani ed il lavoro che non c’è, ma anche i neet,  quei figli di nessuno, senza occupazione e senza formazione ignorati dalla legislazione vigente e vaganti tra le nuvole di un cielo non prodigo.

Caro Renato,
tu sai perfettamente quanto ti stimo e sai che, sebbene novello – direi, con orgoglio ed umiltà, mezza manipola rispetto ai veterani del tuo granitico foglio – posso vantare di aver comunque vegliato in un anno soltanto su un bel trancio di storia della nostra sciaguratissima città, tra guerre intestine e gastro-duodenali, voci di chi grida nel deserto, tuffi atrabiliari, e per dessert l’anno sabbatico di purga in cui ad onta del silenzio collettivo è dappertutto pianto e stridore di denti. Per quanto sarebbero bastate anche meno contingenze a divenire fratelli in armi e camerati, ebbene, Renato, hai avuto cuore di giocarmi questo tiro mancino?
Ma come? Tu sei a conoscenza della ripresa meridionale in atto e me ne metti a parte solo ora? Hai tu udito finalmente le parole da noi bramate che preludono al Nirvana (anni di difficoltà, gli indicatori sociali stanno registrando una ripresa, il turismo è tornato a crescere dopo un decennio difficilissimo) e le butti giù così, come quisquilie da nulla? Diamine! Le avessi solo apprese un tantino prima avrei dato in quel felice attimo la stura alla meglio bottiglia di Don Perignon anzichè sperperarla nell’egotica contingenza di un mio individuale anniversario!
È da più di una decade che i pretoriani vanno ripetendo a ruota libera questo refrain della “ripresa” che ha acquisito oggimai la dignità della carota messa a pendere sul muso dell’asino perchè, illuso dalla speranza di poterla addentare, gli sia più agevole tollerare il basto lungo l’erta.
Ma basta col basto – lasciami passare il calembour – basta con queste austerità all’olio di ricino, basta con questo odioso framing giornalistico sulla ripresa che incombe, e che ormai pare più che altro minacciare, basta con queste pifferate speranzose che alla fin fine, cessata la loro funzione, si riducono a un paraponzi canzonatorio: dicano come stanno veramente le cose, svelino finalmente questo sistema usurocratico centralizzato che si pasce giustappunto dell’insolvibilità del debito, svelino il fatto tristemente notorio che la Calabria e poi l’Italia saranno sempre più una succursale del purgatorio dove una marea di anime sarà chiamata a scontare le cupidigie e gli errori marchiani o calcolati dei pochi.
I dati statistici non rendono giustizia e il mare dei numeri si riadagia presto. La speranza popolare deve essere qualcosa che li commuove o li diletta, vista la maniera con cui vi si trastullano. Saremo anche disgraziati ma non stolti o sprovveduti. Conosciamo a menadito il paradigma mediatico e politico. La speranza non risiede più nel vento delle parole: è collocata altrove forse più in basso di cui si possa pensare.
Caro Renato, forse ti sarò parso troppo splenetico o giambico… Non sai come in questo caso farei mie le parole di San Paolo: “Vorrei essere io stesso anàtema per la salvezza dei miei fratelli”. Riportandolo alla mia stadera: vorrei aver torto io soltanto, e, per converso, la grancassa avesse tutta la ragione dalla sua.