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Il paradosso del modello Riace Fratelli africani ed estranei compatrioti

La vicenda che fa capo a Domenico Lucano, benemerito sindaco di Riace, è di quelle capaci di attirare su di sé ogni sorta di casistica:  teologica, sociale, legislativa ed  infine etica.
Etica… prendiamo, anzitutto, il semplice modello umano, il demiurgo cui si deve a ragione o a torto, in buona od in cattiva fede  l’edificazione della suddetta Città del Sole ultima roccaforte al fascismo xenofobo che ha fatto delle sue spore tossiche tappeto in ogni angolo della penisola – il famoso modello Riace, radica e matrice di un sistema che,  come il romanzo dei Promessi sposi, a detta del Conte Monaldo Leopardi, deve essere imitato il più possibile –  e mi pare che almeno nel cosentino si sia prestata larga fede al monito, nella celebrazione di squisiti e mercenari matrimoni black and white.
Prendiamo ad analisi il personaggio pubblico  Domenico Lucano, risparmiando l’uomo privato del quale solo a Domineddio spetta il merito di essere giudice: come l’acqua delle condutture municipali pare offrirsi per quello che è. Un lieve sentore di cloro di tanto in tanto, ma per il resto schietta, semplice e spiccia spiccia senza mezzi termini. Sindaco del vicolo vicino, fedele casigliano, nonché in apparenza, è stata riposta, messa in bando per brandire in compenso una dialettica ed una espressione complessiva che ricorda irresistibilmente quella del giudice Di Pietro.
Oltre alle inevitabili sincronicità mnemoniche, anzi in supporto ad esse, si aggiunga che i due personaggi, Lucano e di Pietro, hanno in comune il fatto di essere organismi che in opposizione al Diavolo di Goethe desiderano il bene, facendo il male. Non ci soffermeremo in questa sede sul valore intrinseco dell’operazione “Mani pulite”, sulla sua narrazione corrente, l’ira di Temi contro una classe politica corrotta si, ma detentrice del primato sui diritti sociali, e a conti fatti non peggiore di quella odierna, una classe che faceva ancora riferimento ai modelli sovranisti, quindi in perfetto dissidio con i desiderata mondialisti e finanziari.
Era il 1992, l’annus horribilis del Trattato di Maastrich, lo stesso che varò al largo il panfilo Britannia, gremito di plutocrati e di marionettisti d’avanguardia, inaugurando il Kali Yuga delle privatizzazioni forsennate, la svendita all’ingrosso più che al dettaglio dei “gioielli d’Italia” (mi riferisco specialmente agli “attributi” che sempre gioielli di famiglia sono). Troppe coincidenze… Tuttavia il termine lotta di classe, ingiustamente calunniato e reso desueto, potrebbe opporsi adeguatamente ad ogni accusa sistemica di complottismo e di dietrologia.
Sorvoliamo ora sul serio,  poichè sono di quelle elucubrazioni laboriose da farsi venire la forfora. Quello che rimane è il pensiero del bene fatto scrupolosamente, quell’aria di santa bonomia detonata ampiamente da vari martirologi e agiografie di marca saviniana e piddiana.
Fare del bene, strafottendosi del seguito,  è un po’ come vendere sigarette e anticoncezionali, o meglio, come fornire derrate alimentari alle fazioni in guerra, ricordo dei famosi fagioli di James Dean nella pellicola (prima di tutto romanzo) la Valle dell’Eden.
Si tratta, fra un complimento e un altro, di rifondere lena ai muscoli dello sterminio. Per evitare figure meschine si fa oscillare l’asse del problema di fondo – il vero problema precipuo e di complessa risoluzione – verso un settore ben individuabile il quale ha il potere di commuovere le misericordiose viscere delle masse. Così che profughi, animali vivisezionati, e matrimoni gay sono collocati sullo stesso piano dall’ipocrisia impotente e dalla cattiva coscienza. È ovvio che in questi frangenti parcellizzare il problema equivale a strumentalizzarlo.
Per conto loro i filantropi – licantropi del genere “Soros” spingono con una mano la leva della slot finanziaria aggregando ricchezze incontrollate e generando di fatto buchi, aride secche di povertà, mentre con l’altra, fra scrosci di applausi, peana ed evviva, restituiscono soltanto la decima del maltolto sotto specie di elemosina elargita a un’orda di ben selezionati micragnosi. Il risvolto di questa procedura è scatologico più che escatologico.
Eppure chi di noi, in buona fede, ha mai affastellato tre, due parole per descrivere il seguito destabilizzante a partire dal profluvio degli sbarchi clandestini: salari al ribasso nel settore agricolo e non solo, causa la concorrenzialità disperata; strutture al collasso; malessere e rabbia sociale? Mentre si cova in seno questa mala serpe lo slogan “accoglienza prima di tutto” risparmia soltanto i connazionali per i quali, in contrasto, esistono solo parole fraterne come “spread” e “debito pubblico” a rammentargli puntualmente che la Civiltà non deve a loro nulla di nulla, nè superamento della Fornero, nè sostegno di sorta, nè Cacao Meravigliao.
Noi non apparteniamo alla “fortunata” categoria dei “disperati” – così come è inquadrata dall’onnipotente logos – per conto e a beneficio della quale si possono anche sforare tetti deficitari e dar fondo fino all’ultima stilla del nostro benvolere, giungendo a ipotecare financo un possibile futuro nazionale. Dietro le pacate esternazioni dei padroni del discorso campeggia in palinsesto la truculenza alla quale il nostro subcosciente deve evidentemente prestare fede: “Voi massa di porci, carne da scortico, non meritate nulla”.
 I migranti sarebbero una ricchezza in quanto devono sopperire demograficamente alla scarsa natalità, pagarci le pensioni ed altre fanfaluche simili, mentre i nostri giovani devono farsi a loro volta migranti per sopravvivere: paradosso dei paradossi.
A coronamento della loro sete umanitaria, se davvero imparziali e super partes, le varie ONG formino degli elicotteri per sorvolare ponti, balconi e banchine d’Italia, ovunque possano intercettare aspiranti suicidi, vittime sacrificali della stessa crisi da loro voluta, aggiungendo, in più che cospicuo numero, vite alle vite scampate al naufragio di chi ardisce imbarcarsi verso la Fata Morgana di una cittadinanza europea.
In questi tempi fra cane e lupo, nessun modello Riace, modello Giuditta, o modellino Burda potrà funzionare fin tanto che non si sarà operata un’ampia e accurata bonifica alle interne contraddizioni umane, alle acque spartite della nostra congenita schizofrenia.