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Lettera aperta al futuro sindaco della città La pianificazione territoriale grande assente nei programmi dei candidati

man writing a contractIn questi anni di apocalisse culturale siamo rimasti tutti orfani di qualcosa. Sono crollati i vecchi ideali novecenteschi e con essi i principi e le certezze che hanno nutrito la società e le generazioni: è svanito il senso della giustizia, dei diritti e dei doveri, sia sul versante pubblico che su quello privato. La politica e i partiti sono coinvolti in un inesorabile processo di disgregazione del rapporto col sociale che ormai è disconnesso.
Questa deriva ha alterato la tradizionale forma di democrazia di partito e, in questo deficit, si è innestata una metastasi, che corrode la politica, i suoi centri nervosi, la sua genetica e produce una democrazia malata, bulimica, mediatica. A questo nuovo organismo si manifesta un’adesione non più partecipe dei destini del partito, delle idee e della società che esso esprime, ma un’adesione alla “griffe”, al “brand” e quindi al leader che lo cura.
La mutazione genetica della politica corrompe, a scalare, anche le competizioni locali, dove ogni contendente assume le prerogative del leader, costruisce un suo brand e chiede adesioni a slogan su cui vengono impostati i programmi. La presenza sui media diventa ossessiva e strategica ai fini della buona riuscita della competizione. Gli annunci di opere, progetti, eventi si susseguono senza soluzione di continuità in una girandola impazzita in cui la città finisce per diventare un luna park, un paese dei balocchi, una California in salsa casereccia.
Il mito dello sviluppo, in una visione distorta, partorisce visioni da incubo sviluppista e, nella vulgata mediatica, Lamezia assume i connotati di ”metropoli diffusa” (che è poi un ossimoro, una contraddizione in termini), oppure di una città comprensorio, addirittura una città regione; in una fiera delle assurdità e delle banalità da annuncismo parossistico. In questo vortice di banali originalità (questa volta l’ossimoro è efficace), le terme assumono il ruolo di “volano di uno sviluppo turistico che cambierà le sorti del territorio”, tanto annunciato quanto improbabile; i sette chilometri di costa  inducono a definire Lamezia “città di mare”, nonostante sia storicamente e indiscutibilmente, a forte vocazione agricola, commerciale e artigianale; mentre “l’area industriale più grande del mezzogiorno” ci proietta, in queste iperboliche visioni, in un futuro industriale a cui tutta la nazione guarderà con meraviglia e ammirazione; e poi porti turistici, centri fieristici, autodromi, metropolitane ed altre meraviglie disegnano una infinita casistica di città fantastiche, da fare invidia al grande Italo Calvino, che nel suo “poema d’amore alle città”, LE CITTÀ INVISIBILI, sognò, inventò e descrisse “appena” 55 miniature di città, nel labirinto della fantasia.
Ma il suo era un viaggio fra storia, utopia, immaginazione, desiderio, memoria, frammenti, visioni da poeta della città. Le città ideali dei nostri competitori sono, ovviamente, visioni improbabili di uno sviluppo malato e distorto dall’idea che il progresso sia un illimitato aumento di quantità edilizie, piuttosto che di qualità della vita dei cittadini. I nostri tentano di far sognare ad occhi aperti uno sviluppo declinato ad un futuro senza passato e senza storia. Ma può esistere un futuro senza passato? Può esistere una città senza storia, senza radici, senza identità?
– La città è la forma spaziale di un’identità collettiva, è al tempo stesso concretezza e memoria vocazione e paesaggio, è la materializzazione di una cultura.
– La città non è mai solo un luogo fisico, è soprattutto una forma che rispecchia la visione di mondo dei suoi abitanti.
– La città antica è una visione intrisa di arte, cultura, politica, lavoro, economia, la città contemporanea è ormai l’immagine spaziale dell’osceno, dell’ignoranza, del populismo, della speculazione.Il futuro della città sta nella necessità di ristabilire il legame fra gli uomini, l’ambiente, il territorio agricolo e le vocazioni locali. Bisogna in sostanza declinare al futuro quella dialettica, tipica dell’antichità, fra città e natura, per ridare vita e misura alla città. E’ per queste ragioni, ed altre ancora, che i nostri leader locali devono ripensare i programmi, fatti di slogan e di fantasiose idee, spesso sempre le stesse, ripetute da anni ad ogni competizione elettorale: l’ospedale, le terme, la costa, l’area industriale, non hanno nessun valore presi a sé e senza analisi. Non si possono declamare intenzioni, bisogna costruire analisi scientifiche per progetti realizzabili.
Da quanto detto, si evince che la grande assente nei discorsi, nei proclami, nei programmi, è l’URBANISTICA, la pianificazione territoriale, le politiche urbane. Ragionarne e proporre un capitolo nei programmi, una discussione collettiva, che riguardi il territorio e la città, significherebbe farsi carico sia delle ragioni dell’ecologia e dell’armatura urbana, sia della tutela della natura e della dotazione delle infrastrutture; della difesa del paesaggio e del miglioramento delle condizioni di vita nella città; dell’agricoltura e del comparto produttivo agroalimentare, il tutto in una logica di studio comparato e di valutazione tecnico-economica fra vocazioni territoriali e costi-benefici delle scelte di pianificazione.
Sarebbe utile, cari aspiranti sindaco, aprire una discussione sulle ragioni di questa assenza, che non sono certamente né la fretta né la distrazione, ma forse qualcosa di più profondo su cui tutti dovremmo interrogarci. L’urbanistica ha la funzione di rispondere alla necessità di tutelare, nell’organizzazione della città e del territorio, gli interessi collettivi, di cui la logica del mercato è incapace di tenere conto. L’intervento regolatore di tutela degli interessi collettivi spetta alla POLITICA; la formulazione tecnica degli strumenti per il governo delle trasformazioni territoriali spetta all’URBANISTICA, che fornisce le basi alle decisioni della POLITICA. Sembra perfetta, oltre che efficace, a questo proposito, la definizione che ne traccia Francesco Indovina, secondo cui “la pianificazione urbanistica costituisce il prodotto di una volontà politica tecnicamente assistita” (altro che “filosofia”, come spesso erroneamente chi fa politica preferisce definire l’urbanistica).
Sempre più spesso oggi accade che il politico assuma come valori da privilegiare non quelli dell’interesse collettivo, ma quelli dell’individualismo e dei valori immobiliari, cedendo a derive populiste e aderendo a slogan senza fondamento né teorico né tecnico-scientifico, al solo fine di accaparrarsi un effimero consenso, senza storia e senza avvenire. Il “renzusconismo” imperante sta contaminando ogni livello della politica, per cui vale l’annuncio continuo, la novità senza retroterra culturale, stupire per non pensare.
Io ancora credo nella centralità della politica, che non è solo quella dei partiti, ma è una dimensione esistenziale dell’uomo, che significa partecipazione al governo della Polis, anche attraverso il dissenso, se è necessario. Credo nella partecipazione, che diventa esigenza di farsi carico di interessi che non sono solo del singolo, ma di comunità più larghe fino all’intera società.
Credo in quella cultura che pensa che bisogna guardare al futuro evitando ciò che appare utile nell’immediato e selezionare ciò che realizza l’interesse generale.
Credo che oggi la critica che dobbiamo farci è se sappiamo riconoscere i nostri limiti, se sappiamo considerare non negoziabili le nostre certezze, se sappiamo resistere quando qualcuno ci induce a fare scelte che vanno nella direzione opposta alle nostre convinzioni.
E allora mi domando:
– è capace la nostra città, nei ceti dirigenti che essa esprime, di pensare in questo modo?
– Oppure è inevitabile che tutti siamo condannati alla prassi del giorno per giorno, del consenso immediato?
– E’ davvero fatale che la politica coincida con la tutela degli interessi immediati espressi da gruppi ristretti?
– Oppure deve farsi carico anche degli interessi dei più deboli, di quelli che non hanno peso sociale, di quelli che non hanno peso elettorale, di coloro che non sono ancora nati, delle generazioni future?Io credo che noi abbiamo il dovere di fare tutto quanto è nelle nostre possibilità perché ciò accada.