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Antimafia di parata? Non siamo attrezzati Il nostro obiettivo è togliere la delinquenza ai politici e la politica ai delinquenti

Romano De GraziaConclude il meeting il giudice Romano De Grazia, presidente emerito della Corte di Cassazione.
Dopo l’intervento del prof. Angelini e del procuratore nazionale antimafia Roberti, che nel corso della sua disamina, sempre con l’aplomb che gli va riconosciuto, ha  preso le distanze dalle diverse posizioni emerse, quello del giudice  calabrese  è il commento più atteso a chiusura di questo confronto campano.

“E’ un fatto notevole  –  sostiene il giudice De Grazia – che oggi il Centro Studi Lazzati sia presente a Santa Maria Capua Vetere, nella terra dei fuochi, per discutere di legalità, di ecomafia e degli strumenti di contrasto. Proprio nella terra più martoriata della penisola italiana, forse più della mia Calabria. E’ questa una dimostrazione che il nostro Centro Studi Nazionale è in grado di organizzare convegni in tutto il territorio dello Stato, al di là dei confini regionali ed al di là delle bandiere di partito.
Mi dispiace soltanto, e non per amore di polemica, che questa volta le mie valutazioni sul fenomeno mafioso e quelle del procuratore Nazionale Antimafia non in tutto convergano”.
“Non ho mai detto
– continua De Grazia – che la legge Lazzati risolva del tutto il problema delle collusioni  mafia-politica (magari lo facesse) ma è certo più incisiva di altre iniziative, spesso alimentate da interessi più pratici e meno ideali (raccolta di contributi pubblici).
Sia chiaro per tutti: il Centro Studi non gioca all’antimafia e la legge Lazzati lotta la mafia in trincea per togliere la delinquenza ai politici e la politica ai delinquenti. Nella mia terra, dove imperversa l’antimafia di parata, continuano, invece, ad organizzare  convegni da operetta, su iniziativa di sindaci alla ricerca di visibilità personale per mantenere la loro poltroncina di periferia.
La legge Lazzati è uno strumento concreto di lotta alla mafia, non cerca passerelle, né gioca all’antimafia. Sol così si spiega il silenzio assordante della stampa che privilegia ciò che non fa danno al malaffare”.
Il giudice De Grazia, che certamente le cose non le manda a dire, anzi le recapita direttamente al destinatario, afferma quindi con decisione che la legge Lazzati è uno strumento sicuramente più efficiente di qualsiasi altra iniziativa antimafia, avendo il pregio, innanzi tutto, di sopprimere un paradosso normativo attualmente esistente nel nostro ordinamento: il sorvegliato speciale, indiziato di appartenenza alle organizzazioni criminali, comunque localmente denominate, perde il diritto di elettorato attivo e passivo, non può votare (elettorato attivo), però se raccoglie cento, mille, diecimila  voti altrui, tali voti sono validi.
“Questo, che Stato di diritto è? – egli sbotta – La Lazzati introduce, invece, il divieto della raccolta del consenso al sorvegliato speciale. E quel che preme evidenziare è che senza tale legge non avrebbero rilevanza penale i pur dimostrati rapporti elettorali intercorsi tra politico di pochi scrupoli e gruppi malavitosi.Troverebbe così  soluzione sanzionatoria il rapporto, per fare un esempio della mia terra, secondo la polizia, intercorso tra l’on. De Gaetano e  la cosca dei Tegano”.
Questo ha inteso dire Vittorio Grevi quando ha scritto reiteratamente sul Corriere della Sera che la legge Lazzati colma una lacuna del sistema. Questo hanno inteso sottolineare il grande Federico Stella, il numero uno del diritto penale italiano, e Cesare Ruperto, presidente emerito della Corte Costituzionale, così come alti magistrati della Suprema Corte e di merito nonché  docenti di diversi atenei.
Il presidente emerito della Corte di Cassazione è un fiume in piena, ribatte in punto di diritto tutti e tutto: “La Lazzati ha il pregio inoltre della più agevole applicazione sotto il profilo dell’acquisizione della prova, rispetto a quella richiesta per l’applicazione del 416 ter C.P., ultimo ritrovato dell’insostenibile leggerezza giuridica.
Al riguardo è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione che ha messo in evidenza come la riformulazione del contenuto del 416 ter C.P. avesse reso più difficoltosa l’avvenuta violazione.  Sicchè se col vecchio testo si sono verificate, dal 1992 ad  oggi soltanto tre condanne passate in giudicato, col nuovo testo prevedibilmente le condanne saranno zero”.
Da cronista di periferia ho la sensazione che tra la riformulazione del 416 ter e la legge Lazzati esista un parallelo, ma solo nel caso in cui si riesca ad acquisire sin da subito (durante la competizione elettorale) la prova dell’accordo perverso tra malavitoso e politico. In questo caso, le due norme prevedono l’applicazione di un a sanzione sostanzialmente simile.
Ma dove casca l’asino? Il 416 ter vuole la prova dell’accordo sottobanco tra politico e malavitoso. Chi mai la darà?
La Lazzati, invece, mette la palla al centro: le cosche hanno un nome ed un volto; se un politico  del quale è apparsa sui muri la sola fotografia risulta il primo degli eletti (storia di vita vissuta alle ultime regionali calabresi), sicuramente dietro c’è l’inciucio. Cosa sono, se no, i collegi sicuri e blindati?
Ho l’impressione che la politica sia avvezza a giocare a cavacecio e che il suo eccessivo garantismo copra in realtà una tacita società di mutuo soccorso per aiutarsi vicendevolmente quando spira la tramontana.
Sostiene Roberti che il 416 ter sia il modo più efficace per contrastare la mafia e ritiene, egli, lo scioglimento dei consigli comunali, l’immediato, più efficace mezzo di contrasto per combattere i malavitosi.
Di contro De Grazia afferma che la legge Lazzati ha “l’ulteriore pregio di evitare lo scioglimento dei consigli comunali, provvedimento generalizzato e per questo iniquo che colpisce candidati buoni e cattivi e l’immagine della comunità di appartenenza” e che pertanto “non può dirsi la Lazzati una legge eguale alle altre; essa evita proprio lo scioglimento perseguendo ineleggibilità e decadenza dell’individuabile candidato appoggiato dalla mafia”.