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IL FALLIMENTO DELLA CRIPTOVALUTA
Da potenziale moneta popolare a metodo Ponzi, schema economico di vendita truffaldino che prometteva forti guadagni ai primi investitori a discapito dei nuovi a loro volta vittime di truffa

Torna in mente Giacinto Auriti, quando, con l’aria del più becero banditore, dai boccaporti di “Moneta al Popolo”, trasmissione in presa diretta il cui sobrio arredo scenografico era dato unicamente da un loquacissimo nodo scorsoio deposto a lato del presentatore, annunciava verità masticabilissime – e forse per questa loro menda sospette ai più – sulla truffa del debito pubblico e sull’appropriazione indebita della moneta all’atto dell’emissione, rivendicando la proprietà monetaria al popolo al fine di una democrazia integrale che non passasse soltanto per la politica, ormai totalmente sottomessa al giogo bancario.
Il piglio di Auriti era già da allora (fine degli anni ‘90) totalmente ideologico, sebbene egli si sforzasse di supportare le sue intenzioni con alcune personali teorie sul valore indotto e convenzionale della moneta, teorie le quali non mi pregio di aver colto appieno.
Eppure, dietro ogni ragionevole riserva, si comprendeva chiaramente quanto la mercificazione della moneta, ormai assurta a bene dei beni, ossia bene per eccellenza, costituisse di fatto un’aberrazione. Vecchia verità tirata giù dagli scaffali marxisti, pur ignorandone la pagina precisa. Poi dovette subentrare Beppe Grillo, il primo auritiano di una certa rilevanza, (e forse il primo a fare ammenda nel futuro dei suoi trascorsi), a ribattere il proprio pugno sul fatto che la moneta è agli effetti nient’altro che un fantasma atto a regolare scambi di beni e servizi, a presiedere insomma in maniera imparziale e dilazionabile al semplice baratto di questi ultimi. (Fantasma quanto mai costoso, data la quota di interesse che grava, attraverso il tormentoso ciclo dei prestiti bancari, sul denaro immesso in circolazione).
Così in virtù di uno scarto cifrario sul mio conto corrente, o, se vogliamo, del microscopico rivolgimento di un sistema binario all’interno di un big date, posso barattare le tre ore di sportello di oggi con un pesante maglione di domani. Posta nei termini di una inesistenza resa ancora più marcata dal processo di digitalizzazione dei pagamenti e dalla graduale dematerializzazione del contante attuali, la moneta rende ancora più odioso e tragico il paradosso di un paese ricolmo di forza lavoro, di risorse umane e materiali, di muscoli pronti a scattare, energie cognitive ed aree incolte o virtuosamente edificabili, insomma fornito di beni reali e della potenziale e immediata fruibilità di essi, costretto a dover soccombere miseramente, affondare nella miseria e nell’inanizione soltanto perché carente dell’equivalente monetario, ossia del fantasma istituzionale atto ad involvere in un circolo economico fruttuoso tutto ciò. E se un fantasma vale un altro, asserirebbe ogni profano, appunto perché misura del valore di un bene realmente fruibile, per quale motivo non crearci un fantasma monetario che sia nostro e non delle banche, cioè non suscettibile alle bieche e parziali redistribuzioni o, meglio, catture di capitali regolate dal meccanismo del debito pubblico?
Era questa l’idea basamentale di alcune valute popolari come il Simec di Auriti, che circolò per un brevissimo lasso di tempo a Guardiagrele come moneta parallela alla lira, e poi, ma con ambizioni dal principio più globali, del bitcoin e di tutte le altre seguaci criptovalute.
Naturalmente sarebbe riduttivo relegare l’idea della criptovaluta al mero fattore economico-finanziario laddove l’imprescindibile meccanismo della blockchain che l’accompagna e la giustifica porta con sé un vastissimo corollario di implicazioni, le quali non possono esaurirsi in una trattazione generica ed ideologica come la presente.
In un certo senso col bitcoin ci sembrò assistere, ma in un ricorso storico piuttosto accelerato, alla rinascita della moneta ed alla sua graduale accettazione convenzionale. Ricordo le uscite di scetticismo e orrore sacro con cui si replicava alle appassionate esternazioni dei primi profeti della cripto. Atteggiamento sicuramente precorso nei riguardi di chi per primo, nella fase protoeconomica dell’umanità, dovette proporre la conchiglia o la piuma come mezzo di scambio.
Ma ora mentre ch’io parlo il tempo fugge, già in paesi come il Libano dove la pressione economica esercita il suo inflessibile rigore, oscillando affilata come il pendolo di Poe sulla piena coscienza popolare, le criptovalute hanno trovato una piena rispondenza alle contingenze della piccola economia, quella reale. I locali che accettano il pagamento in moneta non convenzionale hanno ormai cessato di appartenere allo stuolo delle mosche bianche e presto nasceranno anche attività i cui dipendenti, meglio che nulla, saranno remunerati in criptovalute, assolvendo sempre più alla definitiva acclimatazione della moneta elettronica nella sfera dell’uso quotidiano.
Ma è a questo punto che emerge quel nodo apparentemente insolubile che intercorre fra l’accentramento ed il decentramento, la loro insanabile soluzione di continuità.
Se la sua progressiva istituzionalizzazione, che passerebbe attraverso l’introduzione delle cripto nei pacchetti bancari alla stregua di un qualsiasi asset, pone in essere da un lato un mood speranzoso sul versante dei suoi fautori più idealisti, in genere quelli storici, dall’altro china pericolosamente verso un riassorbimento della neovaluta da parte dei dispositivi liberali nella vecchia funzione di valori. È ciò a cui si sta assistendo nell’ultimo periodo.
Con l’astuta mossa della quotazione in borsa la quale rimanda il suo valore, in ultima istanza, al dollaro o ad altre vecchie monete a debito, la criptovaluta si riduce ad un semplice tramite remunerativo, ad un mero agente di scambio di secondo livello, laddove l’unica ragion d’essere rimane sempre il vecchio sistema che fagocita, o più verosimilmente leviatanizza anche questa realtà, rimpolpando la sua costituzione a base finanziaria.
Così, totalmente depotenziata e disinnescata, compresa da tutti ma in realtà da nessuno, perché defraudata del suo più autentico potenziale rivoluzionario, non fa che ridefinire e riconfermare il disegno capitalistico finanziario, ad onta di tutte le sue promesse. Gran parte dei giovani, presso cui il progetto gode di una illimitata stima, non cavalca in essa che il sogno di un riscatto soggettivo più che libertario in senso popolare.
È proprio in questi chiari di luna che si accusa nostalgicamente la carenza ideologica ed utopica dei tempi. Oggi in cui si pone immensa cura nel far piazza pulita di ogni residuo ideologico, proprio quando il sistema è tenuto in piedi dalle ideologie più grottesche, ci viene incontro la bistrattata filosofia di Costanzo Preve: vivere senza ideologie è come camminare al sole senza l’ombra.