Vai al contenuto

LA CANTINA SOCIALE, PERÒ LA VICENDA ICOM NON HA INSEGNATO NULLA
Non essendo un giurista di quelli grandi e specializzati (la laurea non basta) la vicenda della Cantina sociale non riesco ad afferrarla sino in fondo. E’ troppo complicata la vicenda normativa e un comune cittadino deve aderire ad una delle due tesi in campo per atto di fede, senza riuscire a capire bene l’intricatissima questione giuridica che sta alla base.

Non è la prima e non sarà l’ultima questione sulla quale l’ultima parola ce l’hanno i giudici, per quel processo di «giuridicizzazione» del vivere civile che ha fatto diventare l’Italia «Il Paese dove tutto finisce in tribunale» come il titolo di un vecchio articolo di Pigi Battista apparso sul Corriere della Sera. Ma fatta questa premessa generale (e i 5 referendum sulla giustizia che gli stessi promotori hanno abbandonato al loro destino sono la prova che il sistema è ormai irriformabile), vorrei segnalare qualcosa che a Lamezia dovrebbe renderci tutti più attenti ogni volta che ci mettiamo a disquisire in punto di diritto su ogni questione.

Mi riferisco alla vicenda Icom che qualcuno ricorderà è nata come protesta contro l’invasore straniero, l’ing. Noto da Catanzaro. Quella vicenda a sinistra venne impostata subito come affermazione di un principio (la sinistra fa sempre, come sta succedendo anche sulla Ucraina e sull’ambiente, questioni di principio), vale a dire su un terreno agricolo non puoi costruire. Ma siccome ogni regola (compresi i dodici comandamenti) ha le sue eccezioni e gli avvocati, attraverso l’interpretazione delle norme, possono sostenere che oggi è bianco quel che ieri, per un’altra questione, hanno dimostrato che è nero, ogni battaglia politica sostenuta in punto e sulla base del diritto da affermare (non solo in Italia, dappertutto, e i film americani ci spiegano da sempre come grandi battaglie ideali si affermano soltanto davanti alla Corte suprema) alla fine cerca la sua foce, un giudice che ti dia ragione. Insomma, la vicenda Icom e l’estenuante contenzioso tra il Comune e gli avvocati di Noto, chiedo, non ci hanno insegnato nulla?

Anche quella vicenda politica, nata come affermazione di regole che qualcuno voleva violare e proseguita con manifestazioni di piazza e poi, per lunghi anni, spostatasi al Tar e poi al Consiglio di Stato e infine in Cassazione, avrebbe dovuto insegnarci che un avvocato che ti dice che hai ragione lo puoi trovare, ma questo non significa automaticamente che troverai un giudice che la pensi come il tuo avvocato. Voglio dire che la ragione degli avvocati (non a caso il parlamento è pieno di avvocati e di gente che mastica il diritto come un cheving gum) non può diventare in modo automatico una bandiera politica, altrimenti non solo affidi il tuo destino (politico) al giudice che il caso ti assegnerà (se Lamezia avesse trovato un giudice che alla fine dava ragione a Noto avrebbe chiuso i battenti), ma anche se vinci (grazie al giudice) in pratica magari hai perso lo stesso.

La vicenda Icom infatti dimostra due cose (ma chissà perché si ricorda solo la prima): la prima è che al fondo la tesi di Noto non è stata accolta in via giudiziaria; la seconda è che se in pratica Borgo Antico fosse stato realizzato nel nostro territorio, a noi lametini così male non ci avrebbe fatto, e gli unici ad essere danneggiati sarebbero stati altri territori o imprese.  In politica, ecco cosa voglio dire, occorre sempre, prima di passare alla guerra e/o agli avvocati, saper negoziare. Innanzitutto perché le guerre in tribunale convengono non alla pubblica amministrazione ma ai ricchi che schierano fior di avvocati con i loro studi e le loro conoscenze diffuse e pregresse, e poi perché il tempo di provare la negoziazione è limitato e talvolta il tempo ti scade. Come insegna la vicenda Icom, l’ing. Noto quando il sindaco Speranza decise di negoziare aveva ormai deciso di provare a fare all-in con la giustizia amministrativa (o questo era l’intento iniziale, non posso saperlo perché di mezzo ci furono i commissari prefettizi).

Pertanto, venendo alla vicenda della Cantina sociale, non si possono ri-percorrere oggi gli stessi sentieri provati con la Icom, cominciando a far battaglia politica sulla base di una presunta ragione giuridica e paventando congiure di palazzo, complotti della massomafia e via dicendo. Se al contrario la si affronta, come si dovrebbe fare in politica, senza trovarsi un nemico da abbattere ed esaminando i pro e contro della questione, la negoziazione degli interessi in gioco può tentare di conciliare interessi privati e pubblici. Il bene pubblico non consiste nello sconfiggere il nemico ma nel risolvere problemi difficili.

Se, al contrario, qualcuno vuol avere ragione, stoppando l’operazione del supermercato, lasciando al posto della Cantina quel che ci sono oggi, le macerie, così come è di fatto avvenuto con lo zuccherificio di S. Eufemia (archeologia industriale si chiama), che i giuristi e gli avvocati combattino  pure. Ma i cittadini questa “politica” continuano a non capirla. Così come non si capiscono altre vicende italiane che chiamano in causa gli ambientalisti (più o meno) ideologici.

Come ha spiegato qualche giorno fa Claudio Cerasa (il Foglio), “se si considera urgente, cruciale, strategica la transizione verso una nuova stagione dominata dalle rinnovabili sarebbe utile, per esempio, che l’ambientalista collettivo avesse il coraggio di ricordare che le rinnovabili, in un paese come l’Italia, vanno a rilento non per un complotto internazionale ma perché nel nostro paese (a) il 70 per cento dei progetti rinnovabili è fermo a causa della burocrazia, (b) ci sono da anni 575 domande bloccate al ministero della Cultura in attesa di un’autorizzazione, (c) la durata media di un iter autorizzativo sulle rinnovabili è di sette anni nonostante la direttiva europea sulla promozione dell’utilizzo dell’energia rinnovabile preveda una durata di un anno di media e due in casi eccezionali”.

Quando noi ci occupiamo (e accapigliamo) sulle questioni di principio e lasciamo la pratica ai burocrati ecco cosa succede.