Vai al contenuto

NOI, EVOLUTI MA SCIMPANZÈ
Ormai abbiamo capito, circa i comportamenti umani, che i fatti non contano più, ma conta lo storytelling, la narrazione, per suscitare emozioni sociali. La politica in generale, che tocca il suo punto più basso nelle competizioni elettorali, ci dimostra che gli umani non siamo per natura una specie razionale, o inclini alla bontà o al rispetto.

La lotta politica è fatta di molte cose che giudichiamo eticamente discutibili e sono quelle cose che spesso insegniamo ai nostri bambini che non si dovrebbero fare: mentire, tradire, insultare, ingannare, corrompere, bullizzare, ricattare, minacciare, denigrare. In realtà, quello che accade è forse la “naturale” conseguenza del fatto che siamo animali politici. Ma non nel senso che pensava Aristotele, il quale ci innalzava perché fra tutti gli esseri abbiamo la parola e siamo i soli in grado di percepire il bene e il male.

Ormai sembriamo aver dimenticato quasi tutti (e i comunisti fanno finta di non saperlo) che per ottenere società umane più libere, più benestanti, meno violente, più egualitarie, sono occorsi migliaia di anni, fino a quando in una parte del mondo, l’Occidente, l’invenzione della scienza, il capitalismo o divisione del lavoro, il libero mercato o gli scambi a somma non zero e la spersonalizzazione della politica attraverso la rule of law hanno cambiato il mondo.

Quaranta anni fa un libro, di Frans de Waal  (La politica degli scimpanzé), spiegò il comportamento sociale dei primati (tra i quali c’è la nostra specie). Parlando di scimpanzè, ricordava Gilberto Corbellini dal quale ho tratto lo spunto per questa mia narrazione, l’autore ha concluso che l’attività politica umana “sembra far parte di un bagaglio evolutivo che condividiamo con i nostri parenti più prossimi”. Il dna umano e quello degli scimpanzè differisce per meno dell’1% del totale. Non è vero che solo gli uomini pensano e hanno piena consapevolezza di sé, basta mettere uno scimpanzè davanti ad uno specchio e dopo qualche giorno si scoprirà che prima o poi si osserverà da vicino e comincerà a fare delle smorfie dimostrando come abbia compreso che lo specchio riflette la sua immagine, non quella di un altro.

Gli scimpanzé vivono in gruppi sociali di circa 50 individui con leader maschi che devono impegnarsi in una serie di manovre per arrivare e/o rimanere al vertice della gerarchia sociale. I maschi alfa di successo non sono necessariamente i più grandi e forti, ma quelli che attraverso la diplomazia riescono a formare coalizioni con altri maschi, come accade anche nel sistema di partiti. Non conviene allearsi con il più forte (questo ormai succede solo in Calabria), ma coalizzarsi con un altro maschio meno forte. Conviene anche non subire passivamente la dominanza o le gerarchie, ma coalizzarsi per detronizzare chi detiene il potere. Per conquistare il dominio sul gruppo anche gli scimpanzè devono guadagnare il sostegno delle “masse”. Allo scopo, devono essere “gentili”, per cui gli aspiranti leader degli scimpanzé sono propensi a baciare i bambini come fanno i politici umani, ma anche distribuire le risorse, quasi sempre cibo, per creare consenso. Un primatologo giapponese ha studiato uno scimpanzé che ha governato per 12 anni appropriandosi del cibo di tutti i maschi e redistribuendolo selettivamente ai suoi sostenitori o non condividendolo selettivamente con i suoi rivali.

Gli scimpanzé inoltre come i mafiosi uccidono brutalmente i membri dei gruppi rivali attraverso raid e imboscate. Nel caso di minaccia proveniente da altri animali si coalizzano insieme, mettendo da parte le ostilità interne quando è in gioco la sopravvivenza del gruppo. Anche nella politica umana, le minacce esterne possono mettere a tacere il dissenso interno e sostenere i leader, come si è visto anche di fronte alla pandemia.

Che cosa è rimasto nei nostri tratti genetici di questi nostri antenati dai quali, secondo la paleoantropologia, ci siamo divisi tra i 5 e i 7 milioni di anni fa? E’ facile dirlo, tendiamo a giudicare e decidere come se vivessimo ancora in una società su piccola scala. Né potremmo fare diversamente, perché il nostro cervello è costruito per presupporre un ambiente su piccola scala, un ridotto numero di interazioni sociali utili o affidabili (non più di 150) e le soluzioni che riteniamo intuitivamente giuste sono quelle che funzionano bene in una società piccola. Per la maggior parte della storia evolutiva abbiamo vissuto in piccoli gruppi affiatati di cacciatori e raccoglitori in cui coalizioni di individui si contendevano la leadership. Questo significa che potenzialmente prendiamo decisioni politiche in modi spesso non adatti al mondo moderno e globalizzato. Oggi sappiamo bene come gli argomenti che definiamo “populisti” e “sovranisti” possono facilmente attecchire nelle comunità umane che percepiscono qualche svantaggio da un’integrazione sovranazionale o dalla globalizzazione. Non esiste al mondo nessun populista che non sia contrario alla globalizzazione e non sia convinto che “piccolo è bello”, “come si stava bene una volta senza internet” e quando avevamo la patria e le frontiere e le monete nazionali.

La mentalità gruppale dei primati, cioè l’innata disposizione a dividere il mondo sociale in “noi contro loro”, a partire dal gruppo parentale per risalire fino alle nazioni, spiega la nostra evoluzione. Sin da bambini ci si divide in gruppi (i ragazzi della via Pal), il territorio viene diviso (la nostra via, il nostro quartiere) e si combatte in bande contro gli altri. Con questo retroterra culturale alle spalle volete che la globalizzazione non sia avvertita come il male assoluto? Il fatto che siamo moderni e usiamo gli smartphone non conta nulla perché siamo i discendenti dello stato di natura, di tante piccole comunità di cacciatori e raccoglitori. I filosofi hanno lavorato quasi solo di fantasia quanto alla natura dell’agire politico umano.

Quando con la transizione agricola le comunità umane sono diventate via via più numerose, salvo qualche rara situazione, nel mondo storicamente conosciuto di libertà ed eguaglianza ce ne sono sempre state assai poche, dopo l’uscita dallo “stato di natura”, anche perché l’età media era bassa e si moriva in media prima di trent’anni per malattie, violenza, incidenti, incertezza alimentare.

Uno studio condotto dal primatologo Richard Wranghman ha dimostrato che gli esseri umani, nel corso della preistoria, hanno dovuto affrontare la tensione tra l’attrazione per il potere e un desiderio di parità sociale. Mentre bonobo, scimpanzé e gorilla erano fortemente gerarchici con maschi alfa molto aggressivi, gli uomini cacciatori-raccoglitori erano egualitari. Al punto che i maschi prepotenti ed egoisti, o che cercavano di comandare gli altri per motivi non utili al gruppo, venivano ostracizzati o neutralizzati. 

Il potere ha sempre rappresentato un problema difficile da maneggiare e si capisce perché oggi le espressioni umane del potere possono essere così varie. Si comprende perché in nazioni di grandissime dimensioni sia necessaria una notevole concentrazione di potere per farle funzionare, e il potere in contesti così lontani dallo stato di natura possa oscillare tra due poli opposti, assumere la forma di una dittatura o di una democrazia liberale, con qualche modalità intermedia.

Nel corso di centinaia di migliaia di anni abbiamo modificato ed evoluto tratti genetici funzionali a pratiche politiche che dovevano regolare la vita di piccole comunità di cacciatori e raccoglitori (tra 50 e 150 circa). Le comunità sono cambiate e si sono estese a dismisura eppure la forma di governo liberaldemocratico non è stata un’invenzione geniale ed estemporanea di un visionario. Essa è il frutto di una lenta trasformazione del nostro cervello che pur tuttavia, di fronte a quelli che avverte come pericoli, recupera pur sempre gli istinti primordiali, i geni politici non razionali, dal familismo amorale al nazionalismo, con le naturali componenti di xenofobia. Le comunità umane sono già pronte, in situazioni di paura e minaccia, a seguire leader che sanno accendere pregiudizi o comportamenti funzionali a unire il gruppo o la nazione per difendere quel che è “nostro”: il lavoro, le donne, i valori della tradizione, la razza. La nostra storia evolutiva spiega infine anche perché così tante persone vadano (o andassero) a votare, malgrado sia evidente che nessun voto individuale farà la differenza per il risultato. Sentiamo che il nostro voto è importante e questo ha un senso intuitivo per la nostra mente, che è stata progettata per navigare in una politica su piccola scala dove ogni singolo individuo poteva essere decisivo.