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IL DANNO SCOLASTICO E I SUOI RIMEDI
La Scuola italiana sembra essere travolta da un incessante tsunami: l’aspetto più anacronistico fu la risposta dei governi del centro-sinistra alle proteste studentesche del ’68, quando essa venne ridisegnata secondo il principio della partecipazione democratica con l’elezione di rappresentanti per favorirne la cogestione. E fu l’inizio degli anni bui e confusionari. Non tutto è perduto...se una volta tanto la ratio trionfasse sulle sistematiche pregiudiziali opposizioni.

Seconda parte

L’aspetto più anacronistico della governance della attuale scuola italiana, secondo me, lo si ritrova in quella che fu la risposta dei governi di centro-sinistra alla proteste studentesche del ‘68. I Decreti delegati del 1974 ridisegnarono il volto della scuola secondo il principio della “partecipazione democratica” che ogni anno si celebra con le elezioni dei “rappresentanti”, un mezzo per attuare la cogestione. Questa organizzazione è ormai miseramente fallita, eppure tutto il tempo trascorso non basta ancora per prenderne atto.

Al di sopra del preside, a presiedere l’organo che dà gli indirizzi generali della scuola, venne inserito un genitore (operazione analoga non venne fatta per le aziende sanitarie, come mai?) e pertanto occorre sapere che un dirigente scolastico (ancorché definito sceriffo o uomo solo al comando) da solo, senza consultarsi e coordinarsi preliminarmente con nessun altro, può soltanto, sulla base delle norme vigenti, convocare un collegio docenti stilando il relativo OdG. Veramente troppo poco per uno sceriffo con o senza stella. Se l’autonomia scolastica, che ha acquisito rango costituzionale con la Legge 3 del 18 ottobre 2001, fosse scelta consapevole e convinta, ogni scuola autonoma si potrebbe costruire la sua organizzazione coinvolgendo studenti e genitori nei modi che ritiene più significativi.

Nel mentre persiste il rumore di fondo del dibattito incessante tra gli addetti ai lavori sul nozionismo, don Milani, il modello scolastico gentiliano e la scuola per competenze, dal 2000 in poi, con l’introduzione della dirigenza scolastica, si è aperta la infinita discussione sulla scuola-azienda. Se ci stessero a cuore i fatti e non solo lo storytelling, si dovrebbe parlare di scuola-azienda cogestita, nella quale organi collegiali eletti o istituzionali coesistono e s’intrecciano con dirigente e Dsga. Tutti quelli che le scuole di oggi le frequentano sanno che esiste una sola certezza: in esse tutti possono agire e deliberare ma c’è un unico e solo responsabile, il dirigente parafulmine. Accanto, sopra, sotto la figura del docente, intervengono figure strumentali, animatori, coordinatori, responsabili di dipartimento, referenti; le sigle e gli acronimi si moltiplicano in maniera incessante: GLI, GLO, DSA, BES, PDP, PEI, RAV, POF, PTOF, PON; si sono riempiti di carte finanche gli insegnanti di sostegno (si moltiplicano le guide alla compilazione del nuovo Pei su base ICF) come non è mai successo a nessun altro docente nella storia patria, come se l’ “inclusione” dell’alunno disabile fosse facilitata dalla mole di documentazione prodotta; i marxisti immaginari copyright Vittoria Ronchey fanno risalire ai dettami propri dell’economia aziendale e al neo-liberismo vincente la conversione degli alunni in “utenti” e la scuola in un supermercato che ogni anno propone le sue “offerte” formative. Le pagine istituzionali e facebook e i youtube delle scuole si riempiono quotidianamente di immagini e video rappresentativi del nuovo modello scolastico democratico: uscite didattiche, viaggi, inaugurazioni di giardini botanici, gemellaggi, giornate di incontro, cinema, teatro, giornate FAI, scuola digitale, settimane dell’accoglienza e di fine anno con tanto di teatro musica e spettacolo. Ogni scuola media, ogni ufficio scolastico regionale hanno la loro banda musicale che suona l’inno di Mameli e l’inno alla Gioia di Beethoven prima di qualsivoglia manifestazione al chiuso e all’aperto. Gli alunni del primo ciclo diventano ciceroni, botanici, consiglieri comunali, musicisti, critici cinematografici, guide turistiche, attori, cantanti, ballerini…E’ chiaro che la scuola moderna non può essere solo aula, libri e studio, ma cosa diremmo se in un ospedale invece di migliorare le cure si organizzassero di continuo feste per i ricoverati? La domanda posta tanti anni fa da Piero Romei ancora non trova risposta.

Ma descritto tutto ciò, il supermercato con gli organi collegiali, cosa c’è sotto l’apparenza, sotto il vestito della scuola di oggi? Ci sono i banchi disposti di fronte alla cattedra senza predellino ma la lezione è sempre frontale, i docenti svolgono sempre il programma e si angosciano perché devono finirlo in vista degli esami. Sotto il vestito è cambiato poco o nulla rispetto al passato. Come avveniva 50 anni fa la prassi più ricorrente nelle aule vede un docente che tiene la sua brava conferenza tutti i giorni, pienamente convinto nel 2022 che ascoltando s’impara. E’ sempre stato così, fin dai tempi della tanto vituperata riforma delle medie, anzi molti proff si meravigliano che il tennis o lo sci o il calcio vengano insegnati direttamente attraverso l’esercizio senza preliminari lezioni alla lavagna. E’ sempre stato così, si può insegnare da soli senza coordinarsi con i colleghi, beninteso in nome della “libertà d’insegnamento”, un mito che nessuno si è mai preso la briga di spiegare quanto tradisca in modo inverecondo il pensiero dei padri costituenti: non intendevano creare nelle scuole il ruolo del docente “autarchico”, ma piuttosto proibire che un insegnante per lavorare debba fare il saluto romano battendo i tacchi.

Concludo con qualche rimedio approntabile per il danno scolastico attuale. Al vertice le scuole finalmente pienamente autonome vengano affidate a dirigenti valutabili, rimovibili in caso di valutazione negativa, e che guadagnino (per scuole della stessa fascia) lo stesso stipendio in qualsiasi regione italiana lavorino. “Il dirigente più ricco guadagna 15.500 euro l’anno in più del dirigente più povero” (Pietro Persiani). Ma fosse solo questo. Ho letto con interesse di un sindacato che “ritiene inaccettabile una qualsiasi riduzione stipendiale per i dirigenti scolastici”. A parte che non si capisce che funzione abbia un sindacato che ormai di fatto non contratta più il salario, io con pochi altri restiamo gli unici esempi di dirigenti che tre anni dopo essere andati in pensione han dovuto restituire delle somme percepite anni prima per effetto di un Cir con effetto retroattivo finanche…sui pensionati. Ma a parte questa scalogna di sindacati che in una regione sottoscrivono contratti a perdere (ma solo per chi ha già lasciato la scuola), che l’ammontare degli stipendi dei dirigenti dipenda dai dimensionamenti più o meno veloci di ciascuna regione, cioè da scelte politiche, è arduo comprenderlo.

I docenti viceversa oggi non hanno stipendi differenziati sulla base della regione. Sarebbe una scelta utile costruire una loro carriera. Lo scatto stipendiale potrebbe ottenersi in seguito a valutazione positiva a cui il docente liberamente domanda di essere sottoposto. Naturalmente non dopo 9 anni e dopo aver seguito corsi di aggiornamento, e neppure come premio per aver accompagnato classi a mostre, campionati, rassegne, premi, attività extra. La valutazione dovrebbe incentrarsi sul contributo che il docente fornisce con la sua attività scolastica in classe, a contatto con gli alunni e i colleghi, attraverso l’impegno e l’assiduità giornaliera, le doti di equilibrio, le capacità relazionali, la saggezza nella valutazione, che sa distinguere dalle misurazioni.

Infine, ma in realtà è la premessa di tutto il discorso, meritano di essere ponderate le parole con cui il dirigente Stefano Stefanel ha motivato l’eliminazione del valore legale del titolo di studio e l’eliminazione delle bocciature.

Non credo sia necessario enumerare tutti gli elementi che hanno prodotto la grande distorsione italiana per cui il “pezzo di carta” fa aggio su qualunque competenza sia stata acquisita per raggiungere quel “pezzo di carta”: sia quella di alto valore e livello, sia quella strappata anche attraverso tutte le varie patologie del sistema (due anni un uno, istituti che usano metodologie valutative non comparabili, e via di seguito). Se i diplomi e le lauree non avessero valore legale, in primo luogo, si abolirebbero gli esami di stato, che forniscono classifiche tanto inutili quanto deleterie.

Il secondo passaggio dovrebbe essere quello dell’abolizione della bocciatura, con la conseguenza di rendere necessaria una valutazione e una certificazione che descrivano attentamente tutti i percorsi in modo che si possano conoscere le reali competenze acquisite dagli studenti. Così si avrebbero, ad esempio, studenti che escono dai licei con il 100 e lode e studenti che escono con il 25, cioè con un semplice attestato di frequenza. Tutto questo collegato agli accessi universitari aperti solo a chi – in determinate materie – ha un voto alto. Per cui, ad esempio, se esco da un liceo scientifico con 4 in matematica non posso iscrivermi a ingegneria, dove ci vuole, poniamo, l’8. A quel punto pur provvisto di diploma devo andare a prendermi l’8 (al liceo o all’università), altrimenti a quella facoltà non posso accedere. A questo punto diventerebbe fondamentale e interessante sapere da che scuola o università viene uno studente, che percorso ha seguito, dove è di alto o medio livello e dove di basso livello. E gli unici “bocciati” sarebbero quelli che a scuola non ci vanno proprio e quindi diventano soggetti su cui si dovrebbe agire in primo luogo per via sociale.

Non credo sia molto complicato comprendere che questo sistema rivoluzionerebbe tutta la scuola italiana e – soprattutto – renderebbe evidenti, pubbliche e verificabili le valutazioni e le certificazioni delle scuole. Il voto perderebbe il suo valore e diventerebbe soltanto la descrizione di un livello di competenza, come già avviene per i livelli linguistici (anche se questi livelli a scuola assurdamente convivono con i voti). E anche gli studenti che escono dal sistema con una bassa votazione potrebbero vedersi valorizzate alcune  “competenze”.

Si possono esprimere meglio di così idee (abolizione del valore legale del titolo di studio e delle bocciature) che la nostra generazione non vedrà realizzate perché nella scuola italiana stiamo dalla parte del torto? Purtroppo noi italiani siamo così. Enrico Fermi dopo la guerra consigliò all’Italia di investire in informatica. Il suggerimento non venne seguito perché si preferì puntare sul sincrotone